SUL CANTO DEL BEATO

Peter Brooks Mahabharata Krishna talks to Prince Arjuna - (2)

I seguaci dell’antroposofia fin troppo spesso nulla sanno di quanto non sia strettamente legato ad essa. Ma su ciò dovrei correggermi. Vedo sedicenti antroposofi conoscere a menadito Osho, l’AMORC, le Kabbale, Krishnamurti, poi le cloache chiamate canalizzazioni e altre (infinite?) sciocchezze.

Neppure un timido un balbettio sugli autorevoli critici, vuoto pneumatico con gli autentici testi della tradizione. Poi Steiner e Scaligero, ma leggeri come i saldi di fine stagione: ottimi per libertine e esibizionistiche discussioni.

Che questo sia il futuro che avanza? Che ci sia una nuova scuola esoterica molto, ma molto a sud di Ushuaia?

Lascio ai lettori la meditazione sul senso del verbo avanzare, invito tutti a corsi di geografia esoterica, e riprendo il filo.

Va bene, anzi benissimo, seguire il pensiero scientifico-spirituale sulle “Basi occulte della Bhagavad Gita”, però esiste pure la Bhagavad Gita per se stessa e, se non erro, nell’”Iniziazione” Steiner stesso la indica come un testo che è cibo per l’anima.

Allora, è conosciuta o no?

Sfrondata da studi filologici ed esegesi, non è mica un grosso testo ed è rintracciabile in qualunque libreria, anche in edizioni di pochi soldi. Dunque di facile acquisto e ognuno poi fa quello che vuole.

Però mi stupirebbe se nelle fornite biblioteche personali di figure a vasto raggio di interessi spirituali, ça va sans dire, questo aureo volumetto non ci fosse proprio.

Non smetto di ritenere che riassunti o bignamini non comunichino nulla di buono: le Opere dettate dalle altezze (di qualunque tempo), qualora le anime sappiano riconoscerle, dovrebbero essere avvicinate e “trattate” con un minimo di rispetto, anche quando manchi una devozione sincera.

Farle a pezzi non è rispettarle”, come diceva il capo ispettore Abberline nei riguardi delle povere vittime di Jake the Ripper. Eppure i festoni di budella appese sono il prodotto dell’encomiabile fatica quotidiana di chi, credendo d’essere l’attuale incarnazione del maestro del maestro, lancia alla canaglia indefinibili pezzi di cose alte o sacre: così va il mondo dell’illusione elevata a potenza.

Purtroppo chi fa ciò come nobile arte di sottoscala si autogiustifica sempre e comunque: in nomine diaboli, puto.

Qui, da parte mia, preferisco dunque limitare le prossime righe alla cornice in cui si situa “Il Canto del Beato”, confidando nell’interesse dei lettori per l’ulteriore proseguimento.

La Bhagavad Gitā è un un episodio del Mahābhārata, narrazione epica di una visione della grande India unificata in cultura e vita politica, completata tra il V e il I secolo avanti Cristo e che si traduce letteralmente come “La grande India”.

Quando Dhritarāshtra, il re cieco dei Kuru diviene vecchio decide di cedere il trono non a suo figlio Duryodhana ma a Yudhishthira, il figlio maggiore di Pāndu, suo fratello minore.

Duryodhana, uomo di inclinazioni cattive, mediante scaltrezza e tradimenti, si impadronisce del trono e cerca ogni mezzo per annientare Yudhishthira e i suoi quattro fratelli.

Krishna, divinità incarnata, tenta di conciliare le parti: in nome dei cinque Pāndava chiede per essi cinque villaggi ma Duryodhana rifiuta brutalmente e dice che senza battaglia non cederebbe nemmeno uno spillo di terra. Diviene inevitabile battersi per la giustizia e il diritto.

Tutti i principi dell’India si uniscono ad una delle due fazioni. Krishna, amico imparziale, offre una scelta e Duryodhana sceglie per sé il potente esercito di Krishna e Krishna entra nel campo opposto, non come combattente ma come auriga del carro di Arjuna (uno dei cinque pāndava).

Drona, il maestro di ambedue, sceglie Duryodhana perché il suo nemico Drupada ha scelto l’altro campo. Bhīshma, parente di ambedue i capi delle opposte fazioni, l’uomo più forte dell’India seppure anziano e che aveva tentato la riconciliazione, dopo un scrupoloso esame di obblighi e doveri e visto che nemici s’erano schierati a fianco dei pāndava, decide di combattere con Duryodhana per dieci giorni e poi di ritirarsi in morte volontaria ottenuta cioè con mezzi iperfisici.

L’auriga del carro del vecchio re cieco e spodestato svolge per lui la cronaca degli avvenimenti della lotta mai superata in importanza nella storia dell’antica India: qui inizia la Bhagavad Gitā, ossia il Canto del Beato, perché ripete le parole di Krishna, il divino incarnato e perché insegna all’uomo come elevarsi alla coscienza divina, realizzando nella sua vita terrestre il Regno dei Cieli.

Dei cinque fratelli pāndava, il maggiore è il più puro e virtuoso (sattvico), il minore è il più forte (rajasico) mentre Arjuna, terzo dei fratelli, è in equilibrio in forza e purezza: per questo viene scelto dal Divino per essere il suo principale strumento nella grande guerra che doveva determinare, nel mondo, un ciclo, yugāntara, e per essere il discepolo a cui dare il messaggio divino della via allo Spirito.

Se pensiamo l’insegnamento antico come staticamente immerso nel suo proprio splendore, la figura di Arjuna e il momento dell’insegnamento infrangono tale pensiero.

Arjuna è un uomo attivo, osservante delle leggi che regolano la vita dell’uomo giusto, posto nel mezzo della sua più profonda e violenta crisi. Il suo temperamento è indicato dall’inizio del libro ed è conservato fino alla fine: consapevole del grande massacro (di cui è destinato ad essere il principale strumento!), quello che sorge nella sua anima non è ragione filosofica o spirito riflessivo ma da uomo pratico e d’azione scopre di colpo di venir privato di tutto il fondamento della fiducia in sé e nella vita.

Egli, vissuto finora seguendo la legge (dharma) e mettendo in pratica le nozioni di diritto e virtù, scopre improvvisamente che esse l’hanno condotto a diventare il protagonista di un massacro terrificante e inaudito, di una mostruosa guerra civile che incendia tutte le nazioni, prepara la strage dei più valorosi eroi e minaccia la rovina della civiltà.

Allora Arjuna, gettando lontano l’arco divino e la faretra inesauribile che gli erano stati dati dagli dei, esclama: “ è meglio che io mi lasci massacrare, disarmato e senza resistenza, dai figli armati di Dhritarāshtra. Non combatterò”.

Non è il dubbio di un pensatore ma piuttosto la rivolta elementare di tutto il suo essere: non solo il suo pensiero ma anche il cuore e gli impulsi vitali non trovano più regole d’azione, nessun valido dharma.

Egli chiede allora a Krishna una regola sconosciuta, mentre il Maestro lo condurrà verso il segreto che Arjuna non cerca né conosce. Il Divino non vuole condurlo ad una legge qualsiasi (inevitabilmente umana) e chiede piuttosto che rinunci a tutti i dharma, tranne a quello, ben diverso da tutti, che consiste nel vivere coscientemente nel Divino e nell’agire secondo questa consapevolezza.

Il Maestro deve dare al discepolo una nuova legge di vita e d’azione che vada oltre l’insufficiente regola dell’esistenza ordinaria con l’infinita serie di contraddizioni e conflitti, di dubbi e certezze illusorie, così che liberi l’anima dai legami dell’azione senza impedirle di agire e con forza conquistare l’immensa libertà del suo essere divino.

Anche il Canto del Beato, come ogni altro testo, può essere mal tradotto. Basta poco per farne oggetto di erudizione oppure nel dare più luce alle parti preferite mettendo in ombra il resto. Spesso è stato detto, nella critica positiva, che la Gitā sarebbe, essenzialmente, l’insegnamento dello yoga dell’azione (karma-yoga). Ciò non è falso ma solo limitativo, come se da un pugno di sabbia si pretendesse di conoscere l’immensa spiaggia che scivola nell’oceano. Forse è più semplice: il Canto vuole che si viva nel Divino – “sebbene nel mondo, tuttavia in Dio” – . Esso vuole che l’uomo, oltre a vivere nella carne, nel cuore e nell’intelletto, viva nello Spirito. L’uomo, che vive nel mutevole corso del tempo, giunga a vivere nell’Eterno.

Ancora un rilievo: Arjuna è un uomo d’azione, è un uomo concreto e, nel drammatico momento dell’imminente combattimento, è anche uomo interiormente lacerato, confuso, ma è già amico di Krishna: riconoscerà in pieno, durante il dialogo l’infinita natura divina dell’amico, ne prenderà a poco a poco consapevolezza ma, è questo che voglio sottolineare, il Dio è con lui sul suo carro: è già suo amico. Tra i due c’è amicizia già prima che il Divino gli si riveli. Non è cosa di poco conto, non vi pare? E ognuno tragga da ciò qualche conclusione.

La Gitā non è arma di battaglie dialettiche,

è una porta che si apre sull’intero mondo di Verità,

di esperienza spirituale, e la visione che offre comprende

tutti i domini del piano supremo. Essa traccia il cammino,

ma non innalza mura o barriere per confinare la nostra visione.

(S.A.)

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